I componenti del Gruppo Enne nello studio di piazza Duomo, Padova, 1963.
Da sinistra: Toni Costa, Ennio Chiggio, Manfredo Massironi, Edoardo Landi e Alberto Biasi.


 
     
   
 


Porta di accesso alla Galleria Studio Enne di via San Pietro, Padova 1960.
Palazzo Savonarola e Torre Ponte Molino in cui abitava Ennio L. Chiggio negli anni 1966-1967.

 
     
   
 


La Galleria Studio Enne di via San Pietro in un disegno ricostruttivo vista dall’alto.

 
     
   
 


Sede del Gruppo Enne in piazza Duomo (primo piano, prime tre finestre).

 
     
   
 


Toni Costa, Ennio L. Chiggio, Gaetano Pesce e Alberto Biasi alla mostra “La Nuova Concezione artistica”, Circolo del Pozzetto, Padova 1960.

 
     
   
 


Edoardo Landi, Manfredo Massironi e Ennio L. Chiggio allo Studio F di Ulm, 1963.

 
     
   
 


Alcuni componenti del Gruppo Enne con le mogli durante l’allestimento della antologica al Museum Sztuki di Lodz, 1967.

 
     
   
 


Manifesti sul Gruppo Enne (Studio F di Ulm, 1963; Museum Sztuki di Lodz, 1967; Calendario Intercom, 1969).

 
     
   
 


Particolare della lettera di Alberto Biasi in cui comunica a Ennio L. Chiggio lo stato di avanzamento dei lavori di allestimento della Galleria Studio Enne, 1960.

 
     
   
 


Il Gruppo Enne
La situazione dei gruppi in Europa negli anni '60
Italo Mussa - Bulzoni Editore

 
     
   
 


Il Gruppo Enne
Gruppo N - Oltre la pittura, oltre la scultura, l'arte programmata
A cura di Volker W. Feierabend
Fondazione VAF - SilvanaEditoria

 
     
     
     

Annamaria Sandonà
Ennio Chiggio e il Gruppo Enne

“Nuovo gruppo artistico che apre la porta a tutti quei giovani i quali da tempo a Padova sentono il desiderio di tenersi legati e scambiarsi idee, per un raggiungimento sempre più alto; e nel campo della cultura e in quello dell’arte … ogni idea deriva da scelte artistiche indipendenti e originali, ma dal medesimo e fondamentale riferimento a un mondo artistico del tutto contemporaneo”.
Così il 16 ottobre 1959 il “Gazzettino” dava la notizia della fondazione del Gruppo artistico Ennea a Padova costituito inizialmente da nove amici a vario titolo impegnati sulle criticità dell’arte padovana.
Si concludeva con una ufficializzazione un anno di incontri, di animate discussioni, di riflessioni su ancor vaghi propositi di rinnovamento del linguaggio artistico, sulla funzione dell’artista e la sua incidenza sul sociale.
Era un gruppo eterogeneo, per la maggior parte formato da giovani studenti della Facoltà di Architettura di Venezia, compagni di studi, di interessi, di spostamenti in treno, di ideologia. Fra gli intenti comuni vi era soprattutto quello di ricreare a Padova un clima critico, ironico e nel contempo propositivo di un nuovo modo di affrontare il prodotto artistico, così come era avvenuto nelle avanguardie storiche.
In una lettera di Toni Costa a Ennio Chiggio, che stava facendo il servizio militare come sottotenente degli alpini a Bressanone, emergono i primi dubbi sul gruppo: “Con questo foglio ti mando l’articolo ritagliato del Gazzettino: è tutta una confusione tremenda per quanto riguarda il gruppo: il nome Ennea è orrendo e non si sa come sia venuto fuori … Vidolin che ha scritto questo articoletto sul Gazzettino ha avuto delle proteste dai pittori padovani perché siamo dei ragazzini e dovrebbe scrivere per loro e non per dei mocciosi; e così col cavolo ha detto a Pesce che scriverà ancora”.
Tuttavia le polemiche quasi strapaesane non scoraggiarono gli aderenti al gruppo, anzi determinarono un rafforzamento della posizione critica che portò nel novembre 1959 a uno scritto, una specie di manifesto, in cui, accanto a una analisi dell’arte del passato, già venivano enunciati i presupposti che avrebbero fatto da base a tutta l’attività seguente.
“Gli aspetti più evidenti del momento artistico contemporaneo sono: il nichilismo formale e contenutistico, e il graduale annientamento espressivo del mezzo pittorico tradizionale … si sta così creando una necessaria crisi, di linguaggio, che non può interessare solo gli artisti, i critici o gli appassionati … I problemi artistici acquistano spesso la stessa importanza di quelli scientifici, filosofici e sociologici. Con questi devono essere in continuo contatto affinché non ci sia soluzione in un campo che non porti mutamento nell’altro”.
Pur nella sua nobiltà di intenti il gruppo primigenio di lì a poco, forse un mese, si disperse; rimasero a lavorare assieme solo Alberto Biasi e Manfredo Massironi, i più determinati a proseguire un lavoro sperimentale e che già avevano cominciato a partecipare ad alcune mostre.
L’anno successivo si ricostituì il gruppo in quanto vi aderirono fattivamente, oltre a Biasi e Massironi, Ennio Chiggio, la cui presenza fu inizialmente incostante a causa del servizio di leva, anche se costantemente informato dagli amici Edoardo Landi e Toni Costa degli sviluppi sia pratici sia teorici. Fu quindi una casuale e logica conseguenza trasformare il nome in Enne.
Il nuovo gruppo, pur fra alterne vicende, continuò a lavorare e riuscì finalmente a incidere non solo sul tessuto artistico e culturale di Padova, ma anche su quello internazionale, almeno fino al suo definitivo scioglimento nel 1964.
Accadde così che la presenza a Padova di un gruppo di artisti fortemente critici a un certo accademismo pittorico, al lirismo figurativo dei pittori locali, mise sotto accusa l’intero circuito culturale, e portò come risultato a una spaccatura estremamente vivace all’interno della stessa città nella polemica fra conservatorismo e innovazione.
Eppure le provocazioni e le polemiche di cui il Gruppo Enne fu promotore non erano le sole a scuotere gli ambienti intellettuali di Padova. Non a caso lo storico Angelo Ventura con felice intuizione titola un capitolo del suo libro sulla città in quegli anni Un’inquieta metropoli di periferia.
Nel secondo dopoguerra infatti il potere democristiano ed ecclesiastico avevano condizionato pesantemente la vita cittadina per cui i vari partiti del centro-sinistra cercavano con un aspro dibattito di mettere almeno in discussione le scelte praticamente egemoniche della giunta.
Gli anni cinquanta, gli anni della ricostruzione e del consolidamento del potere economico, negli ambienti progressisti sono infatti ricordati da alcuni cittadini come gli anni del sacco di Padova, in quanto molti interventi architettonici e urbanistici avevano stravolto il tessuto urbano della città con conseguenze che ovviamente perdurano tutt’oggi.
Si deve, solo a titolo di esempio, alla giunta guidata dal sindaco Cesare Crescente la dissennata copertura nel 1958 del Naviglio interno, vero elemento caratterizzante il volto fluviale di quella che era definita città d’acque, con il conseguente seppellimento del porto e del ponte romano, per far luogo a una strada, delle Riviere, allora di traffico di scorrimento interno intenso, oggi praticamente interdetto.
A dar voce al dissenso soprattutto ideologico, e a dar spazio al pensiero laico e progressista, erano uomini di cultura che cercarono in un associazionismo di libero confronto intellettuale di avviare un processo di sprovincializzazione.
Nel 1956 era stato fondato in via Nazario Sauro Il Pozzetto, dal nome antico della strada, un circolo culturale che sarebbe divenuto per quattro anni il punto di riferimento di quanti nel franco confronto di opinioni cercavano di sfuggire all’isolamento e all’appiattimento culturale.
Il circolo nella sua intensa e diversificata attività cercava di toccare i molti punti del dibattito contemporaneo su arte, scienza, teatro, letteratura, musica e cinema, promovendo incontri e conferenze con i più significativi nomi della cultura italiana.
Questa dunque era l’atmosfera nella città nei secondi anni cinquanta, e questa soprattutto era la Padova che vide nascere i fermenti innovativi del Gruppo Enne.
Nei primi mesi del 1960 Massironi e Biasi a Milano incontrarono e strinsero rapporti di amicizia con Piero Manzoni, Enrico Castellani e gli operatori che ruotavano attorno alla Galleria Azimut.
Il desiderio di veder confermato il proprio modo di intendere il prodotto artistico e lo stimolo a portare a Padova delle mostre che scuotessero un ambiente pigro sul fronte delle arti visive si concretizzò il 9 aprile dello stesso anno, quando presso il Circolo del Pozzetto si inaugurò la mostra “La Nuova Concezione Artistica” con Biasi, Castellani, Mack, Manzoni e Massironi.
La mostra naturalmente fece molto discutere soprattutto per la vis polemica del depliant che la accompagnava.
Vi si leggeva infatti che la mostra era essenzialmente la manifestazione di una ricerca e derivava dal “superamento dell’Arte per l’arte … perché supera l’individualismo sentimentale … respinge il determinismo causale e l’indeterminato casuale per una ricerca di verità … abbandona lo spazio limitato delle due dimensioni per uno spazio più vasto di cui la luce è l’elemento determinante … supera l’estetica tradizionale per difendere un’etica di vita collettiva”5.
La mostra, per qualche ragione oggi non più tanto oscura, vista la presa di posizione del Partito Comunista nei confronti dell’arte non figurativa, contribuì indirettamente a chiudere la stagione espositiva del Pozzetto, e di lì a qualche mese a concludere l’attività meritoriamente culturale dello stesso circolo.
Nel frattempo, Alberto Carrain, sempre disponibile e aperto ai nuovi linguaggi espressivi, nella sua galleria, Le Stagioni, in via Giotto, il 7 maggio 1960, inaugurò la mostra del gruppo francese MOTUS, su sollecitazione degli stessi Biasi e Massironi.
Il depliant della mostra riportava anche le dichiarazioni di poetica del gruppo francese e soprattutto per la prima volta veniva dichiarata l’opera come prodotto derivato dal dibattito collettivo e non opera esclusiva del singolo artista anche se la firma era dell’esecutore.
Iniziarono da qui una serie di contatti internazionali del Gruppo Enne, seppur non ancora organizzato nella sua interezza, che aderì al nuovo clima artistico con l’entusiasmo dei giovani che si sentivano tramite di linguaggi realmente rivoluzionari.
Si andavano delineando quei punti in seguito sviluppati anche teoricamente soprattutto da Massironi, del processo operativo insieme etico ed estetico, di collettivizzazione del lavoro e di radicale rifiuto sia della pittura informale, considerata vacuamente esistenzialista, sia di un concretismo languente nella sua intransigente staticità.
Gli studi e le conseguenti ricerche si indirizzarono verso la percezione visiva in funzione di esperimenti ottico-cinetici. Non bisogna dimenticare che da qualche tempo gli interessi, prima di Biasi e Massironi, poi di Chiggio, Costa e Landi erano orientati verso i rapporti fra arte e psicologia della forma nel tentativo, ancora puramente intuitivo, di chiarire e/o utilizzare nel processo operativo artistico meccanismi di strutturazione della visione che erano studiati in ambito scientifico.
Furono stimolati ad approfondire l’argomento da Bruno Munari ed Enzo Mari che incontravano nelle frequentazioni milanesi presso le gallerie Azimut e Pater, dove già esponevano anche gli artisti del Gruppo T, tutti impegnati in analoghe ricerche in ambito cinetico. Dalla lettura dei testi di Arnheim, Koeler, e Guillaume trassero i principi della gestaltpsychologie, soprattutto le basi teoriche dei processi ottico-percettivi che in seguito avrebbero ampiamente utilizzato nelle loro opere dinamiche.
Pur tuttavia le prime mostre del Gruppo Enne avvennero all’insegna di uno spirito provocatorio e dichiaratamente polemico, di ascendenza neo-dadaista, vicina alle azioni di Piero Manzoni e di Yves Klein, quindi più mentali, finalizzate a una riflessione articolata sul senso del lavoro dell’artista.
Il 23 novembre 1960 era stato inaugurato uno spazio, lo Studio Enne, al numero 3 di via San Pietro, che serviva sia da laboratorio creativo, sia come spazio espositivo sia per dibattiti e conferenze.
Era un appartamento affittato per la cifra simbolica di una lira all’anno nel tentativo da parte della proprietaria di riscattarlo agli occhi dei padovani da un passato di casa chiusa. Alberto Biasi ne aveva dato notizia a Ennio Chiggio in una lettera nell’estate fra speranza e dubbi: “Stiamo forse per aprire la sospirata galleria, abbiamo deciso in tre giorni ma ora dobbiamo fare tutti i calcoli. Sarebbe allo sbocco di via San Pietro in via Dante.
Però non esiste l’affiatamento del gruppo, né ancora quella flessibilità di scambiare idee che ci si augurava”.
Nella corrispondenza di quell’estate Biasi descrive a Chiggio con dovizia di particolari e schizzi dettagliati le soluzioni più idonee ed economiche per la ristrutturazione dell’appartamento e alla prima licenza Chiggio scese a Padova per collaborare.
Lo Studio inaugurò l’attività con una collettiva formata dagli artisti più significativi delle varie declinazioni del linguaggio pittorico dalle avanguardie alle esperienze più recenti.
La mostra presentava infatti le opere di Balla, Bonalumi, Burri, Flarer, Fontana, Hartung, Mirò, Pollock, Wols. Questa mostra diede modo ai componenti del Gruppo Enne, oramai configurato nella sua struttura definitiva, di attuare una vera e propria provocazione. Essi definirono attraverso una importante dichiarazione di intenti, lo spirito che li animava e non mancarono di polemizzare apertamente con la città e le sue strutture culturali e mercantili.
La contro-mostra “A porte chiuse”, allusiva alla precedente attività che si svolgeva nell’appartamento, in cui “nessuno è invitato a partecipare” sottolineava come: “Le organizzazioni padovane non si sono mai interessate di creare a Padova un ambiente vivo e cosciente delle manifestazioni artistiche contemporanee. Il gruppo ’enne’ a sue spese le organizza a scopo culturale … Ha già fatto e farà conferenze, riunioni e audizioni di musica contemporanea.
I pittori padovani sono pronti ad accogliere il plauso delle classi benpensanti. Il gruppo “enne” le dichiara ora più che mai frigide a ogni problema e conquista dell’epoca attuale … Vuole portare a conoscenza di tutti i fenomeni che determinano i problemi e le conquiste del nostro tempo, aiutando così coloro che desiderano aggiornarsi ma che sono ostacolati dalla scarsezza dei mezzi di informazione. Cerca di combattere l’ignoranza di chi vuol vivere senza fatica al di fuori della propria epoca … È consapevole che l’arte nuova si attua nella società nuova”.
I toni accesi dello stampato, annunciando uno spazio alternativo e operativo, sottolineavano come si sentisse la necessità di usufruire immediatamente della veloce trasformazione delle modalità culturali contemporanee, dell’essere attivi e di incidere sul presente, dell’importanza che un luogo, galleria-laboratorio, divenisse anche luogo didattico.
La chiusura assumeva il duplice significato di sbarrare le porte a un passato provinciale e obsoleto, per aprirle alle istanze di una società nuova, possibilmente marxista, comunque curiosa e inserita in un dibattito creativo ad ampio spettro, lontano da formalismi retorici, dall’aura dell’individualismo e da facili estetismi.
Una non-mostra quindi che oggi potremmo definire di stampo pre-concettuale nella sottrazione dell’opera e del luogo a essa deputato per sostituirvi una dichiarazione di metodo; quest’operazione facilitò anche la scrematura dei componenti del gruppo.
Di intenzioni più ironiche, ma altrettanto didattiche, anticipatrice delle coeve ricerche dei nouveaux réalistes e delle opere commestibili di Piero Manzoni, fu la mostra del panettiere “Giovanni Zorzon.
Contro il culto della personalità e contro il mito della creazione artistica”, comunemente nota come la “mostra del pane”, inaugurata il 18 marzo 1961 e chiusa lo stesso giorno per la deperibilità del materiale esposto.
Il nome di fantasia tipicamente veneto, Giovanni Zorzon, il serio curriculum di vita e di lavoro completamente inventato, facevano parte integrante di una rassegna di pani dalle forme più diverse, artisticamente esposti su mensole e pendenti dal soffitto. Accanto alla provocazione vi erano tuttavia le ragioni serissime contenute nel biglietto d’invito e già enunciate nel titolo della mostra.
“Queste opere possono essere considerate artistiche: la loro concretizzazione non è determinata dall’idea estetizzante del bello, nasce da un’intrinseca necessità di un perfezionamento qualitativo: né è determinata dall’idea del buono perché queste opere sono di una essenzialità che le rende universali.
Non esprimono nessun personalistico mondo interiore, assolvono una funzione sociale”.
In questo modo veniva posto un duplice problema di carattere etico oltre che estetico; si confutava infatti il bipolarismo liquidatorio di bello uguale buono, brutto uguale cattivo.
La distinzione fra estetico e artistico era stata molto dibattuta dai filosofi, comunque da Kant in poi comunemente si era definito come estetico il bello di natura, e artistico come il bello artificiale, ricreato dalla mano dell’uomo.
Ecco che l’artisticità delle forme del pane andava a inserirsi nell’ambito del ricreato da un artista, era altamente significante, piena di contenuti altro da sé e quindi né bella né brutta, bensì funzionale perché assolveva a una ragione di utilità sociale.
Era una risposta alle accuse di usare materiali eterogenei e in genere extra artistici, come il cartone ondulato da imballaggio, il plexiglas, la plastica, ma voleva essere anche un modo per inserirsi nelle esperienze internazionali di rivalutazione e uso di qualsiasi materiale ai fini artistici.
Del resto, ai fini didattici, si voleva anche dimostrare che un certo grado di indifferenza, di duchampiana memoria, nei confronti di un bello estetico, considerato come sterile appannaggio di un’arte borghese e consolatoria, avrebbe portato a vedere con occhi nuovi le proposte di un’arte contemporanea che cercava di far apparire non familiari e altamente simbolici oggetti che basavano la loro forza evocativa su livelli diversi dalla mimesi con la realtà e scissi dalla loro funzione primaria.
Ma vi è anche un altro aspetto che mi sembra utile sottolineare.
La mostra, data la deperibilità del materiale, venne consumata in un solo giorno.
Gli artisti che avevano ricreato un ambiente artificioso per l’esposizione del pane, hanno anche allestito la messa in scena della sua morte per inutilizzo, nel tentativo tuttavia di fargli assumere una nuova vita in ambito artistico.
Gli veniva in un certo senso conferita la proprietà di esistere autonomamente sfidando le leggi stesse della durata fisica dell’oggetto pane.
Dal suo uso il problema si spostava al suo significato nato dal nuovo circuito in cui veniva a trovarsi ed era riscattato dal pericolo del consumo, quindi da una morte reale, proprio attraverso la memoria dell’evento.
L’operazione indirettamente veniva a sostenere la dichiarazione di Duchamp per cui l’opera d’arte o l’evento hanno in sé una connaturata deperibilità che ne implica la scomparsa.
Ma in quell’anno di intensa attività lo Studio Enne ospitò anche una serie di mostre, da Calderara a Munari, alla Dada Maino, al Gruppo T di Milano, al GRAV di Parigi, oltre a rassegne degli stessi appartenenti al Gruppo Enne. Si faceva sempre più evidente una attiva partecipazione anche teorica del Gruppo verso le istanze della nascente Arte Programmata e Optical.
Nel biglietto di invito alla mostra di Costa e Massironi dell’8 giugno 1961 si legge: “I nostri problemi sono problemi visivi, pratici, educativi … Visivi perché si preoccupano del rapporto che intercorre fra l’oggetto creato e l’organo della visione senza occuparsi di posizioni passionali e interiori … Pratici perché non tendono a creare il quadro fine a se stesso, ma tendono a legare le scoperte e le ricerche a tutti i fatti, a tutti gli oggetti, a tutti i momenti che condizionano e che fanno parte della nostra vita … Educativi perché nella necessità di creare un nuovo linguaggio si preoccupano di adoperare dei mezzi semplici e delle forme chiare ed elementari al fine di iniziare un dialogo … per cogliere la nostra vita nel suo divenire e nei suoi problemi”.
Come è evidente si sentiva ancora una volta la necessità di ribadire alcuni concetti già emersi in precedenti dichiarazioni, soprattutto la decisa adesione a ricerche ottico-cinetiche, ma anche l’importanza attribuita all’aspetto didattico, considerato fondamentale alla diffusione e all’accettazione dei nuovi linguaggi multidisciplinari al fine di dare al prodotto artistico, e naturalmente all’artista, una funzione sociale nello stimolare un approccio senza preclusioni.
A questo proposito in un ultimo sussulto di polemica contro le mostre a premio, in quegli anni particolarmente numerose, e l’ottusità dei benpensanti, soprattutto contro i critici, il Gruppo Enne inviò a due esposizioni, al Premio Marche, nell’agosto 1961, e alla Biennale d’arte Triveneta, dei pannelli completamente neri.
Il tentativo di incidere sul tessuto culturale padovano si attuò attraverso lettere ai responsabili delle attività del Comune, e più spesso con lettere al quotidiano “Il Gazzettino”, le cui pagine ospitarono gli interventi critici di Biasi e di Massironi, sia come singoli che come portavoce del Gruppo.
Lo stesso quotidiano non mancava di annunciare gli eventi promossi presso lo Studio Enne che rientravano nell’attività didattica. Per la verità non erano molti i padovani che con una certa assiduità frequentavano lo Studio e ne sostenevano l’attività, in ogni caso molti di questi erano gli stessi che avevano partecipato alle iniziative del Pozzetto.
A vario titolo alcuni amici degli stessi artisti si adoperarono a collaborare con proposte culturali nella comune ricerca di uscire dalla situazione di stagnazione cittadina.
Fra le varie proposte, seguite da un pubblico attento e partecipe, formato soprattutto da studenti, giovani professionisti e intellettuali che sarebbero diventati anche i primi collezionisti, vale la pena ricordare per la sezione informativa di letteratura curata da Sirio Luginbuhl, la conferenza di Vanni Scheiwiller su I Novissimi (Balestrini, Giuliani, Pagliarani, Sanguineti e Porta che vi partecipò) il 3 luglio 1961, la Poesia Concreta - Tavole originali del volume di poesie di Carlo Belloli, Stenogrammi della geometria elementare, il 16 ottobre 1962, Canti e poesie della guerra civile e della resistenza-Spagna oggi, con la presentazione di dieci litografie di Emilio Vedova, il 26 gennaio 1963.
Da non dimenticare, anche per le considerazioni esposte in precedenza sugli interventi urbanistici a Padova, la mostra didattica del 2 dicembre 1961 sul “Piano regolatore di Amsterdam”, curata da Paolo Deganello e presentata da Leonardo Benevolo.
Nell’invito si leggeva che: “Il Gruppo Enne con questa manifestazione vuole richiamare l’attenzione di tutti sulla leggerezza con cui si procede all’attuazione dei piani regolatori delle città italiane e in particolare di quello di Padova, ponendo il confronto con le realizzazioni urbanistiche di una città che è stata fra le prime ad attuare coscientemente e al di sopra di qualsiasi interesse particolare una pianificazione urbana in relazione alle esigenze dinamiche della moderna vita collettiva”.
Ancora una volta ci troviamo di fronte a una iniziativa di carattere sociale in una aperta accusa contro l’amministrazione padovana sugli scempi della distruzione-ricostruzione del centro storico a opera di una speculazione edilizia scoperta ed impudente.
Il Gruppo Enne fu inoltre molto attivo nel promuovere una nuova cultura musicale. Presso lo Studio venne presentata una serie di lezioni e di concerti sulla musica d’avanguardia. Dal 28 al 30 aprile 1961 ebbe luogo, organizzata da Sylvano Bussotti, la “Manifestazione di musica sperimentale, con esecuzioni presso il Teatro Verdi e spiegazioni teoriche presso lo Studio Enne”.
Furono proposte, fra le altre, le partiture musicali di Amey, Bussotti, Cage, Koenig, Wolff e La Monte Young.
L’importanza della manifestazione, a quanto mi risulta unica in Italia in tempi così precoci, stava, oltre al fatto di avere abolito la distinzione fra strumenti classici e oggetti che producevano rumore, nell’introduzione di apparecchiature elettroniche di modo che attraverso generatori di bassa frequenza si potevano creare nuovi segnali acustici scrivibili nella partitura musicale e ottenere nuovi suoni programmabili.
L’uso di questi mezzi avvicinava sempre più le varie discipline artistiche alle ricerche scientifiche usandone in fondo anche la stessa metodologia sperimentale.
Il carattere versatile ed entusiasta per qualsiasi innovazione dei linguaggi artistici portò Ennio Chiggio, che fino a quel momento si era occupato soprattutto di poesia visiva, ad accostarsi e appassionarsi alle sperimentazioni musicali usando i nuovi dispositivi elettronici, tanto che alla Biennale di Venezia del 1964 con Teresa Rampazzi presenterà con il Gruppo Enne un elaborato elettronico chiamato Ambiente sonoro che non venne citato in catalogo in quanto non era un oggetto visivo.
Sarà poi nell’anno seguente che Chiggio darà vita con Teresa Rampazzi e Serenella Marega al Gruppo NPS. Fu un’esperienza significativa e d’avanguardia all’interno delle sperimentazioni di nuove sonorità attraverso le strumentazioni elettroniche e il Gruppo NPS partecipò nel 1966 a una importante mostra itinerante “Ipotesi linguistiche intersoggettive” in cui fu presente con un Audiogramma elettronico e un oggetto sonoro, Modulo 4.
La propensione all’utilizzo di leggi o strumentazioni derivate dalle scoperte scientifiche e tecnologiche, divenne per il Gruppo Enne programmatico al XII Premio Lissone il 23 ottobre 1961, quando si presentò con opere firmate collettivamente alla sezione dedicata alle ricerche informativo-sperimentali definendosi apertamente un gruppo di “disegnatori sperimentali … [che] riconoscono nelle nuove materie e nella macchina i mezzi espressivi della nuova arte in cui non possono esistere separazioni fra architettura, pittura, scultura e prodotto industriale … ricercano nell’indeterminazione degli interfenomeni l’oggettività necessaria a concretizzare lucespaziotempo”.
Le opere erano costituite dalle ricerche del Gruppo: si trattava tra l’altro di una doppia interferenza e rifrazione luminosa, una dinamica visuale e una struttura con dieci specchi mobili.
All’agosto dello stesso anno risaliva una mostra collettiva che avrebbe inciso profondamente sui cinque artisti per la prima volta impegnati in un diretto confronto internazionale.
Dal 3 agosto al 14 settembre si svolse presso la Galerija Suvremene Umjetnosti di Zagabria la mostra “Nove Tendencije”. Almir Mavignier l’aveva organizzata girando per tutta Europa scegliendo personalmente le opere da presentare in modo da far emergere una nuova tendenza attraverso il confronto diretto di esperienze operative che avevano nei loro programmi caratteri omologhi. Manfredo Massironi qualche anno più tardi in una conferenza ricorderà l’importanza che la rassegna assunse per il Gruppo e l’atmosfera di proficuo confronto che ne derivò nel rapportarsi per la prima volta in una mostra di respiro internazionale fra artisti poco più che ventenni.
“Fu soprattutto l’occasione per rendersi conto che pur non conoscendosi e provenendo dalle parti più disparate d’Europa si avevano gli stessi interessi e si portavano avanti le stesse ricerche … Quella prima mostra fu una esperienza entusiasmante, mai più ripetuta … Dall’incontro di Zagabria nasce una fervida attività di rapporti e di scambi, di mostre di tendenza organizzate nei vari paesi, di visite e di incontri, oltre alla proposta di organizzare un movimento internazionale denominato Nuove Tendenze, proposta che verrà realizzata durante i lavori di organizzazione della mostra “Nuova Tendenza 2” che si terrà sempre a Zagabria due anni dopo, nel 1963.
Le premesse a questa mostra e a un certo grado di omogeneità formale delle opere presentate erano chiarite da Matko Mestrovich che in catalogo sostenne quali fossero le fondamentali differenze rispetto anche alle coeve ricerche artistiche, scrisse infatti che: “L’opera agisce sull’apparato psicofisico percettivo e non sulla base psicologica o culturale dello spettatore.
Lo spettatore non è invitato alla contemplazione, alla considerazione passiva, ma deve prendere parte attiva allo svolgimento dell’opera che è costantemente variabile, sia a causa del movimento dello spettatore, sia a causa del meccanismo proprio che lo mantiene in movimento e in mutamento continuo”.
Il Gruppo Enne si presentò con opere firmate singolarmente, tutte prodotte in quell’anno di intenso lavoro: Biasi con strutture ottico-dinamiche, Chiggio con strutture ottico-ortogonali, Costa con dinamiche visuali, Landi con strutture visuali e Massironi con tessiture visuali.
Era ben chiaro dal nome stesso delle opere l’ambito di ricerca entro cui si muovevano gli aderenti al gruppo, l’esigenza cioè di evidenziare un campo di accadimenti, una struttura capace di una serie di variazioni interne a essa, che, pur deformando l’immagine, non ne modificasse la struttura di base.
Questo avviene quando una particolare conformazione della superficie è dinamizzata da fattori esterni a essa, soprattutto dallo spostamento anche minimo dello spettatore davanti all’opera.
Vengono così attivati una serie di processi fisici determinati da leggi ottiche e di percezione visiva.
Si concretizzava quindi attraverso la realizzazione di questo particolare genere di opere quella base teorica che abbiamo visto interessare da tempo gli artisti del Gruppo.
Oltre a un riesame delle precedenti esperienze costruttiviste, queste opere, facevano riferimento agli studi di psicologia della Gestalt, a quelle leggi percettive che permettono di ottenere immagini virtuali indotte da particolari conformazioni di campo. Veniva cioè utilizzato il principio di isomorfismo tra struttura dell’oggetto e struttura del soggetto.
Il principio di ambiguità gestaltica, la possibilità cioè di una doppia lettura di un pattern visuale, era ottenuta creando gradienti diversi nella trama dell’opera, di modo che questa provocasse un continuo stimolo percettivo.
Queste opere in continuo divenire, per educare lo spettatore all’instabilità del riconoscimento di una e una sola realtà, dovevano di fatto impedirgli di orientarsi verso una sola lettura dell’oggetto, e provocarlo a cercare tutte le possibilità insite nel progetto.
L’opera viveva in relazione allo spettatore il quale aveva con essa non più il rapporto solipsistico dell’arte precedente che affidava il messaggio a interpretazioni soggettive, bensì un rapporto dinamico in quanto questa gli imponeva il riconoscimento di fenomeni che egli stesso era in grado di ricreare e modificare attraverso meccanismi spazio-temporali.
Il tempo e lo spazio del movimento dello spettatore davanti all’opera erano infatti funzionali alla variazione percettiva delle combinazioni delle forme elementari e dei colori, ed erano fondamentali per stimolare una serie di conoscenze sull’apparato visivo e sull’instabilità ottica.
Chi guardava aveva l’impressione che per il mutamento continuo delle immagini gli elementi si muovessero anch’essi generandosi uno dall’altro.
L’idea di promuovere una educazione percettiva in una dimensione spaziale dinamizzata fu una delle preoccupazioni maggiori del Gruppo Enne per tutto il tempo della sua attività.
Nel frattempo gli artisti avevano cercato di stilare una specie di codice di comportamento interno all’operare in cui si era deciso di firmare collettivamente tutte le opere prodotte, tutte le decisioni rispetto all’esecuzione dovevano essere prese insieme e gli eventuali proventi delle vendite dovevano essere equamente divisi fra tutti.
Mercoledì 17 gennaio 1962 Toni Costa scrisse a Chiggio una lettera da cui si evince il sistema di lavoro collettivo del gruppo anche in assenza di uno dei suoi membri.
“Come al solito dobbiamo preparare con grande pressione una mostra importante a Milano col Gruppo T e forse con Munari e Mari … quindi siamo nella necessità di decidere anche per il tuo quadro-oggetto … i disegni dovranno essere sottoposti a Munari, pertanto mandiamo a Munari un disegno e un perfezionamento del tuo quadro a Lissone.
Abbiamo intenzione di esporre sotto la dicitura “enne” per evitare ogni possibile malinteso … pertanto ti invitiamo a mandarci un disegno il più preciso possibile (con spiegazioni) di una tua idea. L’oggetto poi possiamo farlo noi o tu oppure un operaio specializzato della Olivetti … Il titolo della mostra è “arte programmata” cioè oggetti-quadri che abbiano un certo numero di variazioni visive”.
Nel maggio 1962 quindi Bruno Munari e Giorgio Soavi organizzarono presso il Negozio Olivetti di Milano una mostra che definì, anche criticamente nella presentazione di Umberto Eco, il senso del lavoro di quegli artisti che si occupavano di ricerche attorno al problema del movimento, reale o virtuale che fosse.
Vi furono varie discussioni per trovare il titolo da dare alla mostra, alla fine prevalse quello di “Arte Programmata” intendendo con questo termine definire “quella serie di ricerche non solo visuali, ma anche cinetiche che avevano alla loro base uno schema di controllo, una specie di dispositivo di verifica che ne predisponesse le variazioni all’interno di un campo delimitato. Ciò costituiva il tentativo di impostare dialetticamente il rapporto programma-casualità nella creazione di oggetti tesi al superamento dei vecchi schemi di pittura, scultura e architettura”.
O ancora, come sostenne Umberto Eco nello scritto di presentazione alla mostra, “occorreva inventare delle forme che … non lasciassero mai riposare l’attenzione, ma apparissero sempre diverse da se stesse”.
Come si vede non fu solo una questione terminologica, bensì una vera e propria codificazione di tendenza, tesa a far chiarezza sul concetto di cinetismo e di controllo sullo stesso.
Eco nella stessa presentazione parlò del “piacere della visione, non più di una forma, ma di tante forme compresenti e simultanee, perché questo fatto non significava affatto una depravazione del gusto, ma la sua adeguazione a tutta una dinamica percettiva che le nuove condizioni tecnologiche e sociali avevano promosso”.
Eco, parlando del senso sociale e in fondo etico di un’opera aperta, sosteneva che questa era uno strumento fondamentale di critica a un “mondo organizzato secondo leggi universalmente riconosciute”, per cui sostituendovi leggi fondate sull’ambiguità, sulla non passività, vi era un continuo processo di revisione di valori e di certezze, ma soprattutto orientava lo spettatore a rifiutare delle strutture sociali gerarchiche e lo portava a ribellarsi alle regole di un “governo autoritario che guida l’uomo in ogni suo atto prescrivendogli i fini e offrendogli i mezzi per attuarli”.
Questi temi a dichiarato sfondo politico si innestarono sul fertile terreno della creatività artistica, dando luogo a riflessioni sul ruolo dell’operatore e sulla funzione dell’opera nel promuovere un pensiero dinamico in colui che da allora si chiamerà fruitore. Il rifiuto infatti della composizione statica, da guardare e subire, mirava a ridare a quest’ultimo la possibilità di verificare la propria libertà, sollecitandolo a scoprire le proprie capacità di agire, di fare delle scelte autonome.
Ecco quindi che dal ristretto territorio artistico le linee programmatiche degli operatori cine-visuali, in sintonia con le istanze del momento storico, si allargarono sempre più a una riflessione anche a livello ideologico su tematiche sociali e politiche.
Tra l’altro il Gruppo Enne, che nel frattempo si era spostato da via San Pietro a Piazza Duomo nell’ex sede di una scuola di danza e scherma, aveva affittato, per condividerne le spese, parte dell’appartamento ad alcuni esponenti di Potere Operaio, per cui lo studio era frequentato da Toni Negri, Asor Rosa, Mario Tronti e Francesco Tolin che negli anni seguenti avrebbero profondamente inciso sul pensiero e sull’azione politica della contestazione non solo padovana.
Manfredo Massironi, da sempre nel gruppo il più impegnato politicamente, curò l’impaginazione e il logo del giornale “Classe Operaia”, mentre Ennio Chiggio disegnò il logo di Potere Operaio.
In una stanza del nuovo studio trovarono spazio alcune apparecchiature elettroniche con le quali lavoravano Chiggio e Teresa Rampazzi.
I due anni seguenti furono quelli più folti di impegni e di riconoscimenti per il Gruppo Enne, dalla partecipazione alla IV Biennale Internazionale di San Marino il cui tema era “Oltre l’Informale” (1963) in cui fu premiato il gruppo ex aequo con il Gruppo Zero, alla seconda mostra “Nove Tendencije” di Zagabria, portata poi anche a Venezia presso la Fondazione Querini Stampalia, alla importante esposizione presso lo Studio F di Ulm in cui Chiggio fu presente con tre oggetti fondamentali del suo operare futuro, una Dinamica in plexiglas e retini, una Interferenza con oculari neri su fondo rosso in PVC e Dischi variabili su tre piani.
E ancora nell’aprile 1964 troviamo il Gruppo con firma collettiva al Museo delle Arti Decorative di Parigi alla mostra “Nouvelle Tendance” a conferma di come oramai fosse consolidato sia da parte della critica sia del riscontro internazionale il riconoscimento dei nuovi stilemi compositivi dell’operare artistico.
L’invito a partecipare alla XXXII Biennale Internazionale d’Arte di Venezia sembrò l’opportunità sperata per sancire le operazioni del Gruppo e non venne nascosta la speranza di ricevere il premio alla pittura visto l’aperto sostegno di alcuni critici, Argan ed Apollonio, impegnati a sostenere l’arte cinetica.
Tuttavia quell’anno il premio non fu assegnato e inoltre la presenza in Biennale delle opere di Rauschenberg, cui venne attributo il Premio Internazionale per la pittura, Dine, Johns e Oldenburg con il sostegno mediatico di importanti gallerie americane, divenne l’occasione per una riflessione critica all’interno del Gruppo facendo emergere divergenze mai del tutto sopite del lavoro collettivo, la posizione utopica nel rifiuto di accondiscendere alle leggi del mercato, la difficoltà stessa dei rapporti interpersonali nelle decisioni operative e sulle elaborazioni teoriche.
Ne risultò una lettera autoreferenziale in cui venivano spiegati i vari punti del dissenso, spedita ai cinque artisti che richiedeva la messa in discussione per votazione della sopravvivenza del Gruppo stesso.
Poiché di fatto si seppe in seguito che la lettera era stata elaborata da Chiggio, con la partecipazione di Costa e Landi la votazione per maggioranza sancì lo scioglimento del Gruppo Enne nell’ottobre 1964.