Ennio L. Chiggio ed Ernesto L. Francalanci in Campo Santo Stefano a Venezia, luogo di incontro per le discussioni sul Ludico, 1980.

 
 


 
   
 


Ernesto L. Francalanci con Ennio L. Chiggio e Lea Vergine all’inaugurazione della mostra "Ultima Avanguardia", Milano 1983.

 
     
   
 


Manfredo Massironi ed Ernesto L. Francalanci all'apertura della mostra "Oggetti di Alchimia", Galleria TOT, Padova 1985.

 
     
   
 


I TATA all’inaugurazione della mostra "Metafora e Architettura"; da sinistra Ennio L. Chiggio, Ernesto L. Francalanci, Roberto De Santi, Ginio Zambon, Maurizio Baruffi, Andrea Pardini e Tomas Garner, Galleria TOT, Padova 1983.

 
     
   
 


Inaugurazione della mostra “Gufram Multipli”, Galleria TOT, 1984.

 
     
   
 


Riunione dei componenti TATA durante la mostra "Ultramobile", Galleria TOT, 1982.

 
     
   
 


Ennio L. Chiggio, Omaggio a Duchamp, Galleria TOT, 1984.

 

Ernesto L. Francalanci
È visibile solo l'oggetto che si situa all'interno della teoria che lo studia



I margini delle avanguardie
Le opere di Chiggio prodotte nell’ambito della ricerca della percezione e della perfezione sfidano qualsiasi interpretazione che non sappia collegare la loro tradizione storica con l’attuale orizzonte della logica filosofica e dello studio scientifico e matematico; soprattutto che non sappia cogliere come tali opere non siano separabili né dalla complessa vicenda dall’attività “ludica” TATA né dagli ambiti del design, dell’architettura e della musica ma anche della letteratura e della poesia.
Rischiano di sfuggire, tutte queste opere e tutti gli eventi a esse connessi (attitudini che diventano forme), alla comprensione unitaria e al loro rapporto con la cultura più avanzata del nostro tempo.
Quindi solo un’attività ricognitiva di tipo antropologico potrebbe aprire la strada a una lettura politica ed epistemologica del portato di tale pluridecennale coerenza di Chiggio nell’orizzonte della contemporaneità.
Per questo motivo si dà questa mostra e si dà questo catalogo ragionato.
Una mostra e un catalogo che espongono parte degli innumerevoli risultati di ricerca raccolti in archivi e tradotti in répertoires e atlanti, schedati e organizzati in schede, schemi, organigrammi, di cui la straordinaria raccolta di Insight, rivista pubblicata in proprio a carattere monografico tra il 1992 e il 2011 su temi cognitivo percettivi e su costanti iconologiche, fa testimonianza.
Nelle pagine di Insight così come in ogni altra raccolta di testi (per esempio i quaderni di Ichastologia, sulla Teoria delle connessioni) sono politicamente enunciate mediante apparati tutte le relazioni, tutte le parentele e tutte le variabili genetiche intese come modularità biologiche: solo se investiamo ogni singola opera di tutta la sua genealogia possiamo redimerla dalla puntualità dell’occasione e del momento.
Come è possibile evincere dalle diverse esperienze che si fanno all’interno del corpus delle opere e dei pensieri che le sottendono assistiamo alla manifestazione costante della coerenza e dell’interconnessione, così come se indaghiamo la vita privata non possiamo non accorgerci che ogni atto e ogni evento tendono ad apparire più pubblici, più aperti, più condivisi: più in movimento e più in gruppo e in moltitudo.
Padova con la sua storia politica e universitaria è sempre allusa, facendo sfondo.
Chiggio opera costantemente secondo una amodalità procedurale, dove con il termine “amodale” desunto dalla psicologia s’intenda qui quel metodo di lavoro e di pensiero che si situa là dove tra le avanguardie non si è ancora formato un (m)argine.
In questa frattura in tensione, in questo istmo energetico tale da produrre ancora un ismo, non c’è spazio simbolico ma solo antropologico e logico.
Più che uno spazio simbolico che dovrebbe legare il diviso, il contrapposto, il soggetto e l’oggetto, qui si tratta di diabolico, di qualcosa che si mette sempre di traverso e che impedisce la soddisfazione piena: il diabolico è infatti la condanna all’incessante inesausta ricerca.
Dei “dettagli” evidentemente, perché è in essi – diceva Warburg – che si nasconde il diavolo.
Il grande astratto poiché per Chiggio più nel design e nelle ultime ricerche matematiche che nelle arti sta l’ultimo fronte di un’astrazione contro la concreticità del mondo è opportuno sollevare il rebus dell’opera intesa nella sua oggettività di cosa, di prodotto e di merce.
A questo mondo di merci elette a livello di un “dover essere” economico e politico non è possibile non partecipare.
È impossibile rifiutarsi al sistema di attese del collezionista ma nello stesso tempo non possiamo non accorgerci che l’intero sistema dell’arte è stato assorbito da formazioni sociali e istituzionali – collezioni private, gallerie e nuovi musei – che non sappiamo ancora bene cosa rappresentino e che ruolo abbiano, dal momento che la loro funzione è diventata soprattutto rituale e cultuale piuttosto che culturale e che la contrapposizione ideale tra artista e dimensione capitalistica è stata progressivamente annullata, dal momento che l’artista stesso è un campo d’investimento economico come un altro, ma con in più la copertura ideologica di essere un bene valoriale.
Il vero dibattito “politico” che qui si apre, con questa esposizione, con questo coraggio di esporsi, di esporre alla luce della vetrina l’intera vita come se fosse una merce, induce riflessioni più profonde.
Perché la materia da dibattere è se tutta l’opera qui esemplata costituisce o meno una adesione o una contrapposizione a questo “Stato” e a questo “stato di cose”.
Qual è la “cosa” collocata al centro del tavolo conviviale? Qual'è la “parola” che indica questa cosalità con cui dobbiamo oggi fare i conti?
Vi sono alcune parole tabù o quantomeno da usare con molta cautela nella vita quotidiana: amore, arte, bellezza e cosa.
Cosa perché indica tutto senza indicare, tanto che neppure Heidegger nel famoso saggio Das Ding ha saputo risolvere la materia.
Bellezza in quanto è parola che serve a non impegnarci in discorsi sull’intelligenza.
Amore perché è la parola che utilizziamo per chiamare così ogni nostro amore.
Arte – e veniamo al contendere – perché chiamiamo arte ogni manufatto o artefatto che non sappiamo come definire altrimenti! Ha calcolato Chiggio il problema di questa sopravvissuta etichetta?
Arte è tutto ciò che sembra rispondere a una serie di caratteristiche universali che si dimostrano anche geograficamente oltre che temporalmente incoerenti.
Inutile riaprire, anche dopo Danto, l’interminabile elenco delle definizioni e delle “sdefinizioni” dell’arte che si continuano a emettere dal tempo delle prime avanguardie. Qui è in essere qualcosa di più attuale.
Dentro la grande tragedia del nostro tempo vediamo convivere insieme “arti” moderne (arti del progetto e dell’utopia, un tempo peculiari della “avanguardia”), premoderne (arti decorative e artigianali), postmoderne (arti dello spettacolo, della simultaneità e della simulazione) e creatività sociali e di rete (il social-net o l’attivismo artistico-politico del net-working, per fare degli esempi).
La critica più recente sta assumendo intorno a questo fenomeno inedito un’interpretazione più accurata, come dimostra la sintesi conclusiva a cui sono pervenuti gli autori del primo serio libro di storia dell’arte contemporanea, Hal Foster, Rosalind Krauss, Yve-Alain Bois, Benjamin H. D. Buchloch.
Il riposizionamento dell’arte attuale, quindi, nella sua possibile ribellione alla cultura postmoderna del cosiddetto tardocapitalismo, può attuarsi solo alla condizione che voglia indicarci dove sia il Reale e quale sia la vera immagine dell’Altro, opponendo immagini a un mondo ridotto in immagine. Immagini contro immagini.
Immagini nonostante tutto. Questa è la lacerazione, per chi vive il tempo della distruzione del reale e del vero: dover ricorrere nonostante tutto ancora all’immagine – al neorealismo delle figurazioni – per documentare ciò che lo spettacolo nasconde.
E dunque una ricerca fondata sulla logica deve illuminare i sistemi di funzionamento della mente o i sistemi di complicità tra estetica e mondo (come non ricordare il fallimento di “More Ethics, less Estethics”)?
Un contributo può venire dall’ultimo pensiero di Maurizio Ferraris le cui tesi soprattutto antigadameriane e antiermeneutiche procedono verso il recupero di una concezione ontologico-sociale dell’esistenza di “oggetti” al di fuori di schemi aprioristici di tipo concettuale.
La fame di realtà piega l’estetica a una funzione limite, quella di realizzarsi come scienza della percezione reale del mondo materiale in tutti i suoi aspetti. Or bene, quali sono le immagini posate da Chiggio in questo tempo distruttivo tra le cui macerie, direbbe Benjamin, è comunque possibile intravedere una breccia e attraverso di essa una luce?
Nel futuro è possibile trovare quella “verità artistica sperimentale” che, come auspica Savardi nel suo contributo, possa finalmente coniugarsi con la scienza?
Se per scienza intendiamo il complesso dei procedimenti logici sperimentali, Chiggio testimonia uno spazio del pensiero compreso tra epifania e matematica, tra bagliore estetico del “prodotto” e dimostrazione logica del “processo” costruttivo mentale.
Se per scienza intendiamo l’insieme dei procedimenti che la tecnica, diventata da mezzo a fine, ha espropriato, Chiggio utilizza illuministicamente le tecniche come strumenti attuativi del calcolo: alla macchina il compito d’essere ancora solo un mezzo per un fine logico!
All’artista il compito di astrarre. L’antropologia di questo fare è da riconoscere in ogni artefatto: esso non è solo oggetto, ma pensiero visivo conteso tra jeu d’esprit e jeu de géométrie. Illuminismo radicale con contaminazioni teatrali e recitative anche da parte della macchina “stampante volumetrica” capace di diventare sulla scena una mente riflessiva.
Dal momento che si riconosce a questo fare qualcosa di più d’una pratica discorsiva sul conflitto metafisico tra veduta e visione.
Quale quadro va a “vedere” nel Museo di Reims il personaggio cieco narrato dall’ultimo Daniele Del Giudice se non La morte di Marat? Alla richiesta una fanciulla accanto gli descrive minuziosamente il dipinto.
L’interesse del personaggio è rivolto al contenuto invisibile del quadro e al mondo che sta al di là dello stesso contenuto, come il fatto, per la precisione, che Marat era innanzitutto un fisico e un medico e come medico curava i difetti della vista, anche se questa, dunque, non sembrerebbe più così necessaria.

Precipitati alchemici
Parafrasando il titolo di un saggio di Agamben Aby Warburg e la scienza senza nome potremmo definire l’intera produzione di Chiggio un’arte che cerca il suo nome.
È un’arte che per esporsi utilizza anche rappresentazioni storicamente artistiche ma il cui carattere onnicomprensivo appartiene a quella dimensione di cultura che tende a studiare e a comunicare invariabili antropologiche universali.
Si tratta di un’arte di sintesi e della sintesi: una pratica e una teoretica della connettività totale, della testimonianza deleuziana della dimensione rizomatica dei saperi a cui tendere scientificamente e artisticamente.
Vorrei ricordare uno straordinario progetto che avrebbe dovuto coinvolgere molti di noi studiosi e malamente accolto da un editore distratto, il progetto già perfettamente delineato di una grande enciclopedia “ZeroNove” (1987) dedicata alla significanza del visivo: narrazione figurata, visibilità dell’oggetto, finzione della materialità erano alcune delle aree di ricerca.
Ognuna di esse era ipertestualizzata al contesto per via di pieghe topologiche inedite e inaudite.
Scienza senza nome, quella promossa da Warburg, perché in effetti scienza “sintetica” di saperi connessi e organizzati nell’architettura aperta dell’archivio evolutosi in pagine d’atlante.
Non a caso la denominazione originale dell’istituto a lui dedicato era Biblioteca per la scienza della cultura, dove l’accento principale era calato sul concetto di biblioteca, quasi che tutte le icone potessero essere concepite quali testi.
Arte senza nome, dunque, l’operazione culturale promossa da Chiggio perché in in effetti arte sincretica, connettiva, ordinativa e anticaotica.
E allora davvero la definizione (ludica) di arte sintetica si presta alla provocazione per l’implicito gioco di parole tra immagine di sintesi, composizione in unità di elementi contradditori ed esecuzione di una reazione chimica per produrre dei composti.
Un’attività di studio e di laboratorio caratterizzata dalla complessità filosofica delle ricerche e dalla perfezione delle dimostrazioni visive tradotte in opere, precipitati alchemici che coaugulano aspetti empirici del reale.
La distanza con il modello warburghiano, a cui sarebbe facile assimilare questo “Dislocamento amodale”, questa cartografia generale della conoscenza, sta proprio nella sua non assoggettabilità (différence, detournement?) ad alcun modello precedente per ragioni di totale originalità scientifica, tecnica e filosofica.
Sia chiaro che ogni riferimento alla polimorficità dell’uomo rinascimentale è ridicolo: qui non si dà alcuna prospettiva per il principe, se mai una mise en abyme in uno spazio posteuclideo e già quantistico.
L’originalità dell’intero processo di studio e di progettazione – anche nel campo dell’arte – scaturisce dalla strabiliante quantità di dati immagazzinati in “depositi e dispositivi” che possono essere catturati, interconnessi e interpolati – e non solo nella loro configurazione bidimensionale ma anche nella loro virtualità tridimensionale, grazie all’enorme potenza di calcolo del computer (a sua volta collegato come interfaccia a sistemi meccanici di costruzione diretta di oggetti e di forme): la bellezza dell’opera che ne risulta è quasi più collegata all’estetica del processo che alla risultanza materiale, al “prodotto”.
L’intera fatica testuale che accompagna le opere è per l’appunto dedicata alla rilevazione e alla rivelazione del metodo mentale di un pensiero che si fa anche visivo.
Procedendo per storici confronti dobbiamo ritornare alla questione warburghiana. Warburg concepisce la cultura come un processo di Nachleben, cioè di ricezione, puntualizzazione e comunicazione continua di dati; per questo motivo non ci sarà che lo studio dei segni circolanti nella vita sociale dell’umanità a dare senso all’intero processo di ricerca la cui prima straordinarietà consiste nella forma aperta e continuamente implementabile dell’archivio, perché solo l’aggiornamento perenne lo renderà vivo, efficace e indispensabile: un aggiornamento che si estende nello spazio e nel tempo, nei materiali e negli immateriali, dando forma a un atlante senza confine.
E dunque configurandosi idealmente come un’anticipazione della rete informatica. Il processo di Nachleben istituito da Warburg – il cui testo fondamentale e unico sul proprio progetto archivistico è intitolato significativamente Einleitung.
Bilderatlas Mnemosyne (1929) – doveva inevitabilmente condurre allo studio della vita sociale dei simboli comunemente diffusi nel mondo e perduranti nel tempo, quasi fossero dei memi.

Sistemi nervosi

Qui entriamo in una questione ancora più affascinante. Agamben scrive la prima redazione di un importante saggio su Warburg nel 1975 quando non sono ancora di grande diffusione le ricerche avanzate sul meme, anche se il primo testo di Dawkins è dello stesso anno.
Agamben ha un’intuizione formidabile. Cita un saggio di Richard Semon, Die Mneme, del 1904, noto a Warburg, e in seguito molto apprezzato anche da Gombrich (1970), perché vi si elabora per la prima volta la tesi della trasmissione delle memorie, in tutte le culture dell’uomo, grazie a un effettivo elemento neurale – cosiddetto engramma – che permette la conservazione e la trasmissione di percezioni memorizzate.
Per questo motivo – dice Agamben – Warburg parla dei simboli come di dinamogrammi “che vengono trasmessi agli artisti in uno stato di tensione massima” ma anche soggetti a dinamiche e a rovesciamenti dei significati originari di tali simboli.
L’atteggiamento di Chiggio nei riguardi delle immagini ereditate dalla storia – pensiamo a tutti i riferimenti iconografici che le opere posseggono nei riguardi dell’intero arco d’avanguardia che va da De Stjil al Suprematismo, dal Costruttivismo al Dadaismo, per citare i fondamentali e per limitarci ai movimenti più lontani – sarebbero dunque “nemmeno pensabili in termini estetici” per Warburg.
Si tratta piuttosto, per utilizzare un pensiero di Agamben, di un confronto morale, “mortale o vitale secondo i casi, con le tremende energie che si sono fissate in quelle immagini”.
Ecco spiegata la ragione della necessità sia per Warburg sia per Chiggio di tessere linee energetiche e rizomatiche tra le memorie e le idee, tra le opere e i progetti, tra le costanti e le variabili dell’intero bagaglio dei dati e delle esperienze.
Come direbbe Warburg una simile “collezione” andrebbe dunque indagata con la profondità minuziosa del “biologo” o meglio ancora dell’“entomologo”.
Prima o poi, infatti, dovranno essere studiate le cellule vitali delle “figure concettuali e logiche” dell’opera di Chiggio separandone le linee evolutive dalle invarianti come Riegl fa nel suo Stilfragen, Problemi di stile, pubblicato nel 1893, a proposito, per esempio, della foglia di loto dagli Egizi in avanti, dell’ornato a tralci o dell’acanto dai Greci in poi.
Gli appunti stenografici redatti da Warburg per la disposizione dei pannelli di Mnemosyne hanno l’aspetto di flow-charts, di diagrammi di flusso tra immagini, eventi e note di testo, appunti che quasi prefigurano gli attuali modelli di ipertestualità e di ipermedialità.
Sempre più facciamo ricorso a schemi, grafici, ideogrammi, diagrammi, organizzazioni di segni, ovvero a “raccolte di dati” e a raccolte di raccolte. Gli elenchi di Eco fanno scuola. Non si tratta di esercizi manieristici o di giochi labirintici.
Si tratta al contrario del fatto che stiamo ridando corpo alle immagini dell’ordine, perché di ordine, di pulizia e di trasparenza abbiamo bisogno così come abbiamo necessità di strumenti immediatamente orientativi e universali nell’ambito di una Welthanschauung mondiale.
La speranza di fondazione di un modello di conoscenza organizzata su scala planetaria sembra testimoniata da eventi politici recenti espressisi nello scambio di informazioni tra popoli o moltitudo orientate in senso democratico nell’area del Mediterraneo e altrove.
L’intelligenza artificiale della rete si è stesa come una pelle sopra i corpi etnici e sociali innervandoli. Davvero si tratta di nervi a fior di pelle.
La necessità sempre più sentita di sistematizzazione dei fenomeni in strutture non è più rappresentabile secondo schemi ad albero e neppure secondo l’organizzazione illuministica della Encyclopédie o di tutte quelle che si sono succedute ma mediante carte di flusso e schemi topologici, ipertestuali e rizomatici.
Se facciamo attenzione, ora, alle due famiglie di eventi che questa esposizione mette in luce – l’interconnessione di tutte le opere e la coerenza di tutte le ricerche biograficamente evidenti – scopriremmo lo stesso ricco organigramma di termini che in Warburg indicano le relazioni fra una cosa e l’altra per parallelismi, accostamenti, imitazioni, per collegamenti, derivazioni, riallacciamenti, annodamenti.
E potremmo da ciò far derivare un thesaurus superiore, corrispondente alle categorie del politico, dell’economico, dell’innesto, della trasmissione generazionale, del passaggio, dell’albero genealogico intellettuale, della catena, della parentela, del filamento, della piega e del rizoma.

E tu cosa vedi?
L’“industria artistica” prodotta da Chiggio nel tardocontemporaneo può possedere una sorprendente analogia di tipo concettuale con quella individuata da Alois Riegl per spiegare i caratteri del mondo antico nel momento della sua trasformazione: le forme a intreccio, le geometrie decorative, le figure-sfondo e quant’altro, prodotte innanzitutto nelle pianure sarmatiche e quindi sul limes danubiano e che avrebbero tanto influenzato l’arte romana da attraversare l’intera storia medioevale per giungere fino a noi – come aveva insegnato il grande studioso “padovano” Sergio Bettini – appartengono a uno stile infedele alla natura e che si radicalizza in forme astratte, ovvero prive d’un oggetto che l’osservatore possa riconoscere.
Questo modo di fare “arte”, che non prevede alcun confronto con mondi esterni, presuppone la piena consapevolezza di un concetto di stile come costituzione di per sé di realtà.
In ciò la geometria può esprimere fino in fondo ciò che paurosamente la costituisce, l’essenza del numero, del calcolo, dell’ordine.
Noi guardiamo negli spazi rappresentati dalla geometria posteuclidea come all’interno di quella caverna di fronte alla quale Leonardo, fermandosi sulla soglia, faceva maschera agli occhi con la mano per scrutarvi all’interno.
Per individuare all’interno del “grande attrattore” la legge nascosta, la “curva del battito cardiaco delle forme”, come annotava Benjamin parlando di Riegl. Il cuore delle forme progettate da Chiggio batte attraverso l’ausilio di una macchina artificiale esterna elettrica ed elettronica a cui è affidata la responsabilità economica della precisione e della perfezione, la mano si è protesizzata, il disegno è diventato incisione (finalmente un vero “tratto”), la traccia taglio, la superficie sempre e comunque volume, materia, solida gravità: l’astratto è rinato riproducendosi corporalmente!
L’operazione di Chiggio è un’indagine matematica e epistemologica sul “metodo di visione occidentale” con resti estetici: qui la smisurata questione della différence antropologica si manifesta in tutta la sua provocazione ideologica.
L’Altro, l’altro uomo non ancora colpito dalla nostra cultura, è anch’egli fruitore di quel “pensiero visivo” di cui parla Arnheim, secondo cui la “percezione è di per sé cognizione”?
Le opere fondate su tali dimostrazioni logico-matematiche presuppongono l’assistenza obbligata di un occhio percettivo; nessuna descrizione a parole potrà mai sostituirsi all’esperienza visiva reale.
Cosa rimane delle tre funzioni da Arnheim dichiarate essenziali – la rappresentazione, il simbolo e il segno – se non solo un “vedere” per quanto acuto, per quanto scientifico, un vedere con l’occhio piuttosto che con lo sguardo.
Il fantasma di Lacan e il raggelante XI seminario incombono su queste riflessioni richiamando l’incidente dello sguardo, quello sguardo definito come la vera e più profonda funzione del quadro, per l’appunto una “trappola da sguardo”, quando è finito l’effetto pacificante, apollineo, dell’opera.
La prospettiva si è rovesciata, l’opera guarda il suo osservatore per coglierlo in fallo. In ciò la vera “ironia tragica” dell’opera, d’ogni opera, figura insieme potente e indecifrabile, visibile e invisibile, “sublime” rispetto alla nostra predominante cultura retinica.
L’estetica si diffonde per visioni! Teniamo infatti sempre presente che nulla, nel mondo del vedere, è innocente, come ha insegnato la psicanalisi, e quella di Lacan in particolare.
Il grande scontro è da sempre dunque tra psicologie e psicanalisi.
Se l’estetica si diffonde per visioni – se vuoi, per percezioni – non dobbiamo dimenticare che la comprensione dell’opera avviene solo per pratiche discorsive.

Ciò che si dà a vedere

Cosa si dà a vedere, dunque? Nello stesso anno in cui Van Gogh giunge a Parigi, gli Impressionisti fanno la loro ultima mostra e Seurat sconvolge la quieta borghesia dell’Île de la Grande Jatte con una rappresentazione a punti di colore la cui fusione percettiva tuttavia produceva un dimesso grigio ottico, Heinrich Wölfflin presentava e pubblicava a Monaco la sua tesi di dottorato, Prolegomena zu einer Psychologie der Architektur (Introduzione a una psicologia dell’architettura).
In essa si ponevano le basi di un’attraente e pericolosa interpretazione del mondo, una teoria basata su una caratteristica invariabile dell’occhio e sulla presunzione di una sorta di isomorfia empatica tra il vedente e il veduto, una sorta di “fantasia mitologica” grazie alla quale le forme di per sé esprimono e comunicano “solo ciò che noi stessi esprimiamo con le loro qualità”.
Nel 1886, nello stesso momento in cui l’intera esperienza dell’arte impressionista e postimpressionista testimonia definitivamente l’impossibilità di dipingere il sole con il colore, Wölfflin dichiara che tutto ciò che vediamo, interpretiamo e giudichiamo corrisponde a ciò che effettivamente si dà a vedere: quasi che la realtà – e precisamente le forme di tutta l’architettura e di tutta l’arte – sia dotata di neuroni che si specchiano in quelli dell’osservatore.
Non è forse assai difficile non ammettere – dichiara Wölfflin – che “una figura che abbia perso l’equilibrio non sia a disagio” di per sé?
L’intera storia della conoscenza dell’arte prende una piega inaspettata e il mondo inorganico e artificiale si trasforma in un insieme di ”cose che sentono”.
La storicità dell’occhio percettivo ha che fare dunque con problemi di enorme gravità e responsabilità politica che coinvolgono l’antropologia nel senso di un confronto necessario tra infinite diversità culturali e interpretative.
Secondo Gombrich noi vediamo quel che dipingiamo, nella stessa maniera con cui noi siamo parlati dalle parole che usiamo.
Ma ancora ciò non è risolutivo; sarà Panofsky a ripuntualizzare che ogni epoca culturale esprime una sua visione del mondo e quindi un modo diverso di percepire il mondo e l’arte.
Poiché “senza averne coscienza attribuiamo un’anima a ogni cosa”.
L’oggetto sperimentale che vediamo, dunque, in questa mostra è un oggetto che aspira, nonostante la sua algidità, a farsi riconoscere.
Il senso dell’oggetto visivo è alla nostra portata se siamo capaci di risolverne le leggi che lo istituiscono e lo governano, ovvero se ne comprendiamo la grammatica, il che significa scoprire non cosa è l’opera ma il come della sua articolazione concettuale e percettiva.
Le stesse leggi governano le opere “ludiche”, i progetti industriali e architettonici.
Tra le opere intitolate alle cosiddette “Dinamiche macchiniche” – come non venirci alla mente già dal gioco di questo e altri titoli gli Esercizi di stile di Raymond Queneau o ancor più la stessa Cosmogonia portatile (“dan le onde / un sistema nervoso alla meccanica…”) – una di esse mi pare emblematica del passaggio verso le “estreme cose”, davvero Die letzen Dingen, del ludico: il “Grande voliere.
Proliferante progressione frattale”. La sua forma richiama nell’apparenza le macchine sospese o i “mobiles” dell’avanguardia storica ma la logica costruttiva appartiene allo spazio mandelbrottiano della frattalità.
Se allora la scultura allargava le ali al vento qui la struttura si spegne progressivamente annichilendosi per successivi dimezzamenti.
È la prima opera che mette in forma il sofisma eleatico di Achille e la tartaruga nelle sue conseguenze logiche: a forza di suddividere giungiamo alla “polvere” di cui Cantor è artefice.
Nulla sparisce, qualcosa rimane: ma ha misura nulla. Un’opera che tende a trasformare l’iniziale sorriso dell’osservatore nella smorfia della sorpresa insostenibile. Questo è il passaggio ludico.
Per concludere. Tutta la dimensione del ludico documenta la topologia dei rimandi continui secondo quella cultura letteraria e filosofica fondata sulle reti di ipersignificazione e di intertestualità che ha la sua genesi nella stessa risemantizzazione delle tecniche resa possibile dallo studio della “grammatica storica delle arti” e dall’analisi del pensiero logico-filosofico. Il ludico riconosce che lo scienziato è più ironico ed esteta dell’artista.
Se scorriamo i titoli delle ricerche di Mandelbrot, per esempio, ne abbiamo conferma: Fette di formaggio frattale di Appenzell con buchi rotondi aleatori;
La scala del diavolo; L’isola chimerica a fiocco di neve.
A sua volta l’artista deve tentare di giocare opponendo al gioco ludico della scienza la serietà grave della poesia, così come recita Queneau: “Nel frattempo del calcolo i sauriani / s’insinuan poderosi fracassando / tavole logaritmiche, le regole, / gli abachi. Le loro madri macchine / setacciatrici ed i padri binari, / l’elettronico zio dell’aquilino / sguardo, ammirano spaventati questi / modesti atleti i quali polverizzano / i record stabiliti da quei bipedi / che pur san contare, san parlare / e curare. Curare i sauriani / del calcolo ed i bipedi che pure / sanno contare, parlare, curare”.
Il ludico riempie la ferita aperta dall’occhio nel corpo del vedere – quell’occhio-fallo che, come dice la parola, possiede sempre una pulsione scopica non sempre opportuna – mediante la messa in azione dello sguardo autoriflessivo.
La percezione diventa così effettivamente un sospetto.
Di ciò saremo sempre debitori a Chiggio che riesce a trasformare lo scontro tra occhio e sguardo, tra fisiologia dell’organo e organicità del pensiero, tra psicologia e filosofia, tra scienza e “arte” in un’opera incessante, coerente e minuziosa.
Anche di ciò saremo debitori: dell’eleganza estrema dei calcoli, delle proposizioni, degli eventi e delle forme.
Quale eleganza? Ma certo: l’eleganza che solo una parola giapponese riesce a tradurre: iki (grazia, andamento, respiro, spirito, righe verticali), a cui solo il termine francese chic può malamente accostarsi.
L’ultima opera esposta (Diffrazione prospettica quadra) è forse il più grande omaggio tributato dall’avanguardia contemporanea alla sparizione tanto indagata dall’arte astratta nell’estrema eleganza della sua concettualità.
Ancora una volta un quadrato. Ma esso non c’è fisicamente. Lo vediamo ma non esiste.
Il gioco percettivo si presta a produrre lo sguardo sul nulla.
In fin dei conti anche il nero quadrato maleviciano era originariamente dedicato – disegno per un sipario teatrale – alla Vittoria sul sole.