Sala da disegno dello Studio E&R
(Ennio Chiggio e Italo Rossi) allestita con tavoli della Bieffe di cui Chiggio e Rossi erano consulenti all’immagine e al design, Padova, fine anni sessanta

 
     
   
 


Chiggio durante l’allestimento del mobile Corner della Zoarch, negli anni settanta.

 
     
   
 


Ennio L. Chiggio assieme a Enzo Mari durante una pausa dei lavori al convegno ICSID di Kyoto nel 1973

 
     
   
 


Ennio L. Chiggio con Bruno Martinazzi e Dino Gavina all’inaugurazione della mostra “Inno alla gioia” alla Galleria TOT di Padova nel 1984

 
     
   
 


Ennio L. Chiggio con un gruppo di lavoro al workshop “Architettare la citta storica” nel 1989 in cui sono visibili da sinistra Los, Hawkes, Croce, Cappellari e Botta.

 
     
   
     
   
     
   
     
     

Elisabetta Vanzelli
- Intenzioni e forme di un disegnatore sperimentale



Si delinea, all’interno della parabola artistica di Ennio Chiggio, un’ampia sezione dedicata al design industriale che significativamente partecipa delle ricerche artistiche e visuali elaborate dall’artista fin dall’inizio degli anni sessanta del secolo scorso.
Affrontarne gli episodi in termini di contenuto significa anzitutto porre un accento nodale sull’intenzionalità primaria dell’artista, sorretta da un atteggiamento mentale dinamico, di ordine per lo più speculativo e dal carattere fortemente eclettico.
Respinte categorie e modalità operative standardizzate, Ennio Chiggio si muove con sollecitudine all’interno di frangenti percettivi non convenzionali, ciò nondimeno riconducibili a un’unica categoria sensoriale, ovvero quella delle arti visuali nella loro generalità.
I presupposti estetici e metodologici da cui sistematicamente procede caldeggiano infatti consonanze stilistiche o veri e propri transfert tra opera d’arte e oggetto di design, da intendersi come riformulazioni artistiche che all’imperativo industriale di funzionalità oppongono ipotesi figurali e componenti decorative provenienti da territori differenti, le quali annullano del tutto l’idea stazionaria di un design idoneo e opportuno.
Esperimenti transitori, come la collaborazione con la Schiapparelli Mode di Parigi o la serie di sanitari dedicati ad Alvar Aalto e Brancusi, palesano pertanto una capacità di osservazione e di astrazione progettuale complessa, dal tratto enciclopedico, chiaramente variabile in base all’accezione dell’oggetto in questione.
D’altro canto, l’atteggiamento gestaltico o neocostruttivista mantenuto dall’artista fin dal 1960 delinea, nell’ambito del disegno industriale, un impegno rigoroso per metodologia progettistica e indagine della forma.
L’intento, razionalistico o meglio ancora neoilluminista, è quello di ripristinare una condotta tecnologica ideale, in una dimensione che sia in primis teorica, svincolata da insistenze di ordine economico che inevitabilmente ne alterano intenzioni e contenuti.
Vale la pena ricordare, a tal proposito, l’impegno costante mantenuto dall’artista all’interno del sistema produttivo aziendale: membro del Consiglio Direttivo dell’Associazione di Disegno Industriale di Milano (1973), Chiggio affina una sensibilità politica ed educativa, oltre che estetico-produttiva, evidentemente finalizzata a una divulgazione artistica globale e incondizionata, che recuperi quel principio di socialità evidenziatosi fin dalla fine del secolo scorso in tutte le grandi correnti figurative, dall’Art Nouveau al Bauhaus al Neoplasticismo.
Mediante nuovi materiali e nuove tecniche di produzione – l’artista dimostra di prediligere l’impiego di sostanze artificiali di ultima generazione – il procedimento operativo può d’altro canto raggiungere ipotesi formali inedite e infinite possibilità di risoluzione spaziale, pur conservando inalterato “il proprio grado di sollecitazione funzionale di problematicità”.
Sarà la stessa impostazione gestaltica, di fatto, a indurre l’artista verso una progettualità dal carattere per lo più scientifico, improntata all’esecuzione di sistemi industriali modulari, assemblati a partire da un elemento centrale di controllo.
All’opposto, un diverso orientamento di pensiero, più volte definito ludico in riferimento a una progettualità non esclusivamente qualificabile in senso utilitaristico, si precisa per un aspetto semiologico esplicito, fondamentale per l’identificazione della funzionalità dell’oggetto in questione.
Qualificabile come espressione post-moderna, quindi del tutto anomala rispetto all’ideologia produttivistica precedente, tale condotta si esplicita per indirizzi di progettazione eterogenei, soggetti a modificazioni e alterazioni strutturali non convenzionali, talvolta frettolosamente stimati come episodi disomogenei o paradossali.
Basti pensare all’esperienza utopica del gruppo TATA (ovvero DEL LUDICO) di cui il critico Ernesto L. Francalanci, che assieme a Chiggio ne fu promotore teorico, precisa: “È dunque il mito della verità che il ludico mette in discussione e concorre a far crollare, perché gli sottrae la base, l’idea di un centro, di un luogo in cui si celino le ragioni, i significati ed i meccanismi che lo producono … Il ludico si ciba quindi di senso, nutrendosi di allusività … a decretare la crisi e la cessazione di un’unica verità solidale al linguaggio. Dimostrando come più mondi di senso convivano e coincidano, l’allusione realizza impreviste parentele tra parola e parola, tra cosa e cosa e, ciò che è fondamentale, tra parola e cosa”.
Il collettivo, di durata quasi decennale, operava infatti secondo un principio di contaminazione linguistica e di interferenze e sconfinamenti ad alto contenuto teorico e suggestivo. In qualche modo affine al linguaggio Dada di inizio secolo, TATA sollecitava nel fruitore procedimenti sensoriali imprevisti, di tensione e sorpresa, favorendo una ricezione più stimolante e particolareggiata dell’oggetto in uso.
Rimane infine un ultimo aspetto da prendere in esame, relativo all’attività didattica e teoretica esercitata da Ennio Chiggio in parallelo al percorso artistico finora osservato.
Durante il periodo di docenza presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia (1978-1989) l’artista, che detiene la cattedra di Progettazione ed Estetica industriale, adotta un’impostazione speculativa tutt’altro che settoriale nell’inquadrare l’esercizio del design all’interno del più vasto ambito delle scienze sociali nella loro complessità. Non solo vengono indagate la questione della forma, l’aspetto tecnico del disegno e le sue possibilità pratiche, ma si approfondiscono, oltre a ciò, lo studio relativo la comunicazione visuale e verbale, la sensibilità percettiva conforme i prodotti nella loro complessità, l’estetico inteso come valore sociale.
Ne compendiano l’esercizio saggi e riviste monografiche dai fini didattici e occasionali, tra le quali vale la pena ricordare: le numerosissime dispense pubblicate in ambito accademico e registrate con l’acronimo Co.S.A. (Collettivo Studi Accademia); i dossier TOT degli anni ottanta, editi in occasione delle esposizioni allora allestite dall’omonima galleria di Giulia Laverda; i “Quaderni di San Donà”, periodico dei primi anni duemila, concepito come trilogia indirizzata all’opera di Carlo Scarpa, alla Trans-architettura, al rapporto tra Terra e Acqua.









Infodesign

Il rapporto tra gli uomini e gli oggetti – e le situazioni – ha raggiunto un grado tale di aleatorietà e di saturazione per cui sembrerebbe che la progettazione dovesse negarsi per soffocamento. Poi partendo dalla progettazione come nostro quotidiano strumento di lavoro e di meditazione riconosciamo in essa un mezzo di conoscenza della realtà ambientale in tutte le sue complessità. Progettare è la condizione in cui possiamo proporre delle intenzioni e mediante la quale tentare di organizzare delle risposte. Progettare nel senso di non ipotizzare immediatamente la produzione di oggetti con precise connotazioni formali ma nel senso della ricerca, della sperimentazione, dell'elaborazione di proposte.
Operare per immagini vuol dire comunicare dei contenuti specifici che non sarebbe possibile comunicare con moltissime parole in tutto il loro contenuto informativo.
Non ci interessa, anche perché in fondo è impossibile, precisare i principi teorici che informano il nostro lavoro. La cosa che noi pensiamo più efficace è quella di indurre una lettura meditata delle immagini che illustrano i progetti.
Per facilitare e introdurre questa operazione è utile dare alcune indicazioni di carattere operativo.
Non pensiamo necessario che la forma debba denunciare a prima vista la funzione degli oggetti. Da ciò deriva che il rapporto deve essere mediato dall'azione, questa compromissione aumenta le possibilità di conoscenza, integra la percezione e rende più completa e coinvolgente la fruizione. Ciò comporta un rifiuto della standardizzazione, degli schemi di comportamento e degli atteggiamenti. Accettare tali schemi vorrebbe dire accettare la forma legata alla funzione, la funzionalità tesa all'efficienza, l'efficienza matrice di produttività, in una concatenazione che bisogna spezzare se non si vuole rimanerne imprigionati.
La componente ludica che interviene nel rapporto diretto fra le cose e il fruitore diventa un momento molto importante anche tenuto conto del fatto che noi rifiutiamo il concetto filisteo e puritano del gioco come svago, solo perché reca piacere; pensiamo sia più giusto eliminare ciò che non reca piacere.
I limiti dimensionali e strutturali che solitamente regolano le metodologie del progettare possono essere variati, modificati, distorti facendo sì che gli usuali rapporti di scala, le dimensioni assuntive possano venire disattese nelle loro aspettative aumentando così le valenze emotive del vissuto.
L'attività progettuale si è venuta organizzando in regioni di operatività ben definite che hanno assunto configurazioni di scuole, di correnti, o di ambiti di attività (design, pittura, pianificazione ecc.) ognuna con un suo campo di ricerca, con limiti riconosciuti e di rado oltrepassati; tali limiti per noi non esistono, sono una costrizione inutile, una forzatura innaturale.
Non ci interessa la professionalità istituzionalizzata e corporativa.
Il nostro campo d'azione è il mondo figurativo nel suo insieme e con questo termine intendiamo il comunicare e il ragionare per immagini, il progettare e il costruire situazioni che tengano conto e pongano continuamente in discussione le dimensioni del percepire.
Da ciò deriva la nostra disponibilità ad accettare tutti gli apporti che rientrino in questo ambito, da qualsiasi parte essi vengano se rifiuto c'è è il rifiuto delle denominazioni che vogliono differenziare e rendere riconoscibile e unica una trovata, una ricerca, un campo attività, che in fondo non esiste perché fa sempre parte di un contesto più ampio.
(E.L. Chiggio, T. Costa, E. Landi, M. Massironi, “Eurodomus”, Torino, 1972)